[COLOR=darkblue][SIZE=5]L’ELBA E LA SUA STORIA ANTICA: QUANDO L’IGNORANZA VA A BRACCETTO CON L’ARROGANZA [/SIZE] [/COLOR]
Cosa si deve fare quando, in fatto di storia romana e di letteratura latina, si viene còlti indiscutibilmente in fallo? La risposta appare ovvia: niente, se l’errore ha come sfondo una conversazione fra studenti o una chiacchierata fra quattro amici al bar. Allorché, invece, la topica investe un ambiente paludato, i personaggi ammantati (e i loro fedeli e acritici supporter) dovrebbero prenderne atto, informarsi e non ripeterla in pubblico, adducendo l’attenuante (giusta) che tutti possono sbagliare.
Ma c’è chi preferisce tentare di difenderla (la topica) a spada tratta, e allora all’ignoranza si associa l’arroganza. In quest’ultima casistica si inserisce una vicenda di pochi giorni fa quando, a proposito dell’allontanamento di Ovidio disposto da Augusto, ho fatto presente che, ad evitare confusione, non di esilio si dovrebbe parlare ma di relegatio, punizione alquanto più lieve perché conservava i beni e i diritti civili del poeta. Non sono stato il primo a sottolinearlo e non ho calcato la mano, anche se, per la verità, siamo di fronte a una cantonata per la quale un professore di storia romana potrebbe invitare uno studente universitario a ripresentarsi più preparato all’esame. Il prof. Uberto Lupi, quasi in risposta a chi nel 1995 aveva proposto lo svarione in salsa elbana, in un saggio da incorniciare uscito un anno dopo (si veda ‘Lo Scoglio’, 1996 n. 46) puntualizzava con queste parole quanto fosse marcata la differenza fra i due provvedimenti: “Non viene celebrato alcun processo. Né giudici si occupano della cosa. Ovidio non subisce propriamente l’esilio, che avrebbe comportato anche la confisca dei beni”. Lo stesso concetto, del resto, era stato espresso più volte proprio da Ovidio nei Tristia: “l’editto, sebbene crudele e minaccioso, tuttavia fu lieve nella definizione di pena: in quello di certo sono definito relegato, non esule” … Invero la tua ira fu moderata e mi hai lasciato la vita; non sono privo del diritto di cittadinanza né del nome, né il mio patrimonio fu concesso ad altri, né sono chiamato esule”.
Pur non essendoci spazio per interpretazioni alternative, Ovidio e Lupi sono stati bellamente ignorati da una sequela di professionisti degli studi classici, i quali hanno replicato per anni l’errata versione dell’esilio, come se dalla ripetizione ad oltranza di uno sbaglio potesse nascere una nuova verità. Su questa strada si è inoltrato, da ultimo, un fido sostenitore senza identità e senza faccia, che si firma Tatarella e che, per mezzo di tristi impasti di amenità e di patetici tentativi di ironizzare, ridicolizza l’immagine del simpatico personaggio televisivo. L’arma spuntata dello pseudo-Tatarella è un gergo sui generis, ibrido-maccheronico, che al dialetto siciliano assomiglia quanto un elefante a una zanzara.
Diceva Cicerone: “Cuiusvis hominis est errare; nullius, nisi insipientis, in errore perseverare” (Phil. XII, 5): “Qualsiasi uomo può sbagliare, ma nessuno persevera nell’errore a meno che non sia uno stolto”.
Michelangelo Zecchini