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Francesco Tripicchio da Francesco Tripicchio pubblicato il 1 Agosto 2014 alle 9:21
Pandoro Di nome faceva Pandoro, ma era un toro. Gli avevano dato questo nome per il colore ottonato qui e là vagamente brunito di sbrendoli capricciosi; per l’incedere comicamente infiacchito da saltimbanco in rovina; e forse, anche, per il carattere da missionario fiducioso con cui si avviava all’Ufficio. Non che fosse stato sempre così, per carità; in altri tempi lo avevano chiamato Acetone per via del temperamento da giovin celiatario recalcitrante: pascolo sicuro e nessun altro ardore ch’avesse vaghezze d’indecenti bizzarrie. Ma poi, col passare degli anni, aveva capito e, soprattutto, avevano capito gli Altri. Cure, premure, motteggi e – diciamocelo – i mestieri della Natura, lo avevano ammaestrato, lo avevano persuaso: lo scambio non era impresa scandalosa: io ti cedo qualcosa di me, tu mi cedi qualcosa di te. Si dona, si prende: semplice, e senza briciole. Così Pandoro, sculettando potenza, cedeva la sua linfa vitale. Una volta al mese.Gli avevano preparato una impalcatura ben equilibrata e ripulita d’ogni ributtante sudiciume: due pali s’ergevano dritti e sicuri a sorreggerne un altro sul quale Pandoro, l’occhio sbirciante del conoscitore rassegnato, ritto sulle zampe posteriori, poggiava con sussiego ostentoso quelle anteriori. Giocattolo pareva; bastava rizzare la coda com’a dire: “Son pronto”, raggranchiare con un moto d’impazienza, scaricare un po’ di schiuma dalle froge ed aspettare. Dopo un carezzevole massaggio procuratogli da mani intrise di sapiente tranquillante, uno strano aggeggio, caldo, lubrificato e sdruccioloso come morbido velluto, gli si accostava ai preziosi, due o tre colpetti a regola d’arte, esprimeva quel che doveva esprimere e per qualche minuto rimaneva con l’occhio impacciato di languoroso stupore. Nessuna lotta, nessuna esitazione, nessuna misura e nessuna galanteria.O, intendiamoci, le prime volte non è che si fosse accostato alla cerimonia con la dovuta partecipazione, no per carità!, ma, allorquando gli Altri, senza il riguardo dovuto, gli avevano introdotto un’inconvenienza dove non gli conveniva, capì ch’era meglio bandire ogni qualsivoglia smanceria. Poi li vedeva, con camici e guanti bianchi, rimirare, selezionare e centellinare in contenitori variamente colorati il liquido lattiginoso che gli avevano aspirato non senza procurargli un che di voluttà, e ne era orgoglioso.Ce n’era uno che non aveva camice; stazionava, la chioma trasudante frescure montanare, incatramato e laccato in mezzo all’andirivieni; due occhi che la brama gli spremeva fuori delle orbite segnavano il confine e il rango di tecnici ed inservienti; baffoni che sembravano corna dirigevano con chiarezza e senza inconvenienti il traffico e, se capitava, pacche vigorose e sorrisi da cherubino. Con le une sporcava camici, con gli altri cuori. Gli era antipatico – non fa il caso di dirlo –, volentieri gli avrebbe fatto assaggiare la consistenza dei sui zoccoli, gli avrebbe fatto fare il giro completo dell’intero zodiaco, ma si capiva ch’era quello che rimpinzava tutti e bisognava ingoiare la carota, e non farsela andar di traverso. A Pandoro, dopo i giorni dell’alleggerimento, lo colmavano di fave e vitamine e lo mandavano a pascolare nei campi ai piedi di Monte Delirio ch’eran verdi d’erba e di frescura. E ne godeva. E lì, un giorno, non appena il sole accendendosi cominciò a decorare e liberare dell’intontimento notturno l’intera valle fumante, la vide. Una mucca, una di quelle – le languorose – che portavano a spasso l’enormità delle loro pance con dondolante civetteria, grazioso candore e smorfie rassegnate; quelle che aveva sempre guardato con l’occhio asciutto che non ammette turbolenze, come un re che vede il suo mondo appesantito di contagio e ne rifugge; una tutta sgargiante di biancore pezzato, lombata come Tauruteo comanda; una che, non si sa se smarrita o guidata dall’istinto, s’era avvicinata.Superato il primo momento di comprensibile imbarazzo s’erano presentati. Pandoro l’aveva scrutata con interesse, aveva osservato che pur essendo della sua stessa razza e della sua stessa stazza, era un po’ diversa da lui e gliel’aveva fatto presente. - Per forza – , aveva risposto quella ruminando maliziosa una tenera e fresca margheritina, – sono una femmina. - Sei una vacca? – aveva brutalmente chiesto Pandoro. - Toro benedetto –, aveva pazientemente continuato la mucca, – vacca è una parola lesiva, ma se ti piace fai pure. - Scusa, non volevo offenderti – il toro s’era giustificato girando le terga, e, avviandosi altezzosamente verso un invitante ciuffo d’erba che gli si offriva un po’ più in là, fra sé e sé, aveva aggiunto: – Permalosetta! Se son tutte così… - E comunque, mucca o vacca che sia, son la tua femmina – lo inseguì quella. - La mia femmina? Con quelle terga! Sporche! –, si sdegnò Pandoro. – Tu non conosci l’algida, asettica geometria del mio piacere. Poggiare le mie zampe sul tuo asimmetrico dorso cascante? Non se ne parla! La mucca si voltò sgomenta, s’avviò verso il paese, vide l’insegna d’una macelleria, vi si diresse, entrò: - Mi trovi interessante? – chiese. Voleva essere sicura che a qualcosa servisse. La morale è la seguente, non sono le voglie, non i sentimenti che contano, ma le circostanze.
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