[SIZE=4][COLOR=darkblue]I TESORI ARCHEOLOGICI DEL MONTE GIOVE [/COLOR] [/SIZE]
[FONT=comic sans ms][COLOR=darkred] Intervento esposto dal Prof. Zecchini durante il Convegno UNESCO di Marciana Marina. [/COLOR] [/FONT]
Dalla Sardegna, mediato dalla Corsica, intorno al 1100 a. C. arrivò all’isola d’Elba il costume di inumare i morti all’interno di quelli che alcuni studiosi chiamano ‘ripari rocciosi’. Tale terminologia per l’Elba appare piuttosto generica. L’esperienza ci insegna che, nel versante centro-occidentale, furono particolari forme granitiche, soprattutto tafoni a becco d’aquila e tor sferoidali o a calotta o a fungo, ad essere prescelte per i loro riti funebri dalle genti che abitarono il territorio elbano poco prima e poco dopo il 1000 a. C.. Se ne conoscono alcune alla Madonna del Monte, a Monte Giove, a Serraventosa, a Monte Catino, ma tutto fa supporre che ce ne siano decine e decine. Si tratta di un complesso archeologico che potrebbe dare un contributo fondamentale al progresso delle conoscenze sul momento di transizione - cruciale per la storia mediterranea - fra l’Età del Bronzo finale e l’Età del Ferro avanzata.
Terminata questa doverosa premessa, arrampichiamoci sul Giove, che per la sua conformazione a giogo - o a spicchio di luna - richiama alla mente alture consimili venerate nell’antichità. Il monte bicorne si svelò all’archeologia sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso, allorché Giorgio Monaco scavò nella sella fra le due cime una fossa ellittica da lui definita a ragione “stipe votiva”. Essa era stracolma di oltre 2000 frammenti di vasi e di manufatti litici (bolltoi, brocche, scodelle, coppe, tazze, tegami, bicchieri, pentole, macine e macinelli). Gli oggetti suddetti furono lasciati lì, come offerta a un dio, da una comunità di circa tremila anni fa. Ma per quale divinità?
A dare una risposta concorre il sottostante Monte Catino, oronimo che, con ogni probabilità, si riferisce a Cath/Catha, variamente interpretato/a come il dio sole, come figlia del dio sole, come dea della luna, nominato/a due volte perfino nel celebre fegato bronzeo di Piacenza e nell’iscrizione del sarcofago tarquiniese di Laris Pulena, e comunque importante divinità di culto nel sistema cosmico etrusco. Fra il 1982 e il 1988, in due antri a forma di tumulo naturale, a Monte Catino furono recuperati in parte i corredi di due sepolture etrusche del 600/550 a. C. riferibili a personaggi di elevata condizione sociale. Di particolare interesse sono gli alabastra, le patere, gli aryballoi etrusco-corinzi; le kylikes ioniche d’imitazione etrusca; i kantharoi e le coppe di bucchero; le armille e gli anelli d’argento; le fibule di bronzo; le punte di lancia e le asce in ferro.
Alla Madonna del Monte, sede di devozione mariana dal Medioevo ai giorni nostri, la montagna di Monte Giove/Monte Catino partorisce una sorgente che alimenta il fosso dei Pizzenni, nome di chiara matrice etrusca. Non distante, a conferma della marcata impronta lasciata dagli Etruschi nel comprensorio marcianese, compare il toponimo Pólina, la cui etruschicità, peraltro rafforzata dall’accento che cade sulla terz’ultima sillaba, risalta nel caratteristico suffisso -ina/ena. Le grotte, le strutture dolmeniche, i ripari rocciosi del vicino Masso dell’Aquila nascondono stupefacenti testimonianze etrusche (ceramiche dipinte prodotte a Vulci, buccheri, fibule d’argento e di bronzo) inquadrabili in epoca orientalizzante (600 a. C. o poco dopo).
Questa breve rassegna può essere conclusa con l’Omo Masso, la cui sommità è stata connotata per millenni da una spettacolare scultura naturale androcefala. Osservandolo da sud, da una decina di metri di distanza, l’Omo appariva come una grande testa per l’appunto molto somigliante, nella capigliatura e nel profilo, alla testa fittile trovata a Pyrgi e attribuita da molti studiosi alla dea Catha/Luna. Poi, nella notte del 17 dicembre 2004, un fulmine la colpì, abbattendola. Due grotte a igloo, situate a ridosso del Masso ora non più Omo, restituirono verso la metà degli anni Ottanta del secolo scorso preziosi manufatti del 1000 circa a. C., fra i quali spiccano tre vaghi d’ambra, di cui due sub- cilindrici che rientrano a pieno titolo nella classe ‘ Schatz di Tirinto’. Tali preziosi manufatti potrebbero costituire il primo tassello per estrarre parzialmente dalla sfera del mito e della leggenda l’antica tradizione letteraria (Apollonio Rodio) secondo la quale Giasone e gli Argonauti sbarcarono all’Elba e fondarono Porto Argo.
Gli scavi archeologici nella suddetta dorsale del Monte Capanne, cominciati decenni fa, oggi sono pressoché al punto di partenza. Per di più l’eccezionale valenza delle architetture etrusche (tafoni e tor plasmati da madre natura ma adattati dalla mano dell’uomo), peculiari dell’Elba, rimane sconosciuta perfino alla maggioranza degli addetti ai lavori. Tuttavia, chi si spingesse fin d’ora a chiamare “Montagna sacra degli Etruschi” l’allineamento Monte Giove-Monte Catino-Madonna del Monte-Masso dell’Aquila-Omo Masso, luoghi che, peraltro, fungono da altrettanti marcatori dell’orizzonte terrestre, di certo non userebbe un’iperbole.
Michelangelo Zecchini